Giovanni Andrea De Ferrari
(Genova Circa 1598-1669)
Lot e le figlie XVII secolo
Olio su tela, 138 x 115 cm
Nel ricco catalogo del genovese Giovanni Andrea de Ferrari, pittore longevo e fecondo, si viene ora ad aggiungere questo inedito Lot e le figlie. Formatosi nella bottega di Bernardo Castello prima (1610-1612 circa) e di Bernardo Strozzi poi (1613-1619 circa), Giovanni Andrea De Ferrari esegue inizialmente opere che si collocano nella stretta orbita stilistica del Cappuccino, del quale riprende i soggetti, le fisionomie, e, soprattutto, il gusto per una pittura libera e fatta col colore puro. La sua maturazione lo vede però progressivamente allontanarsi dai modi del maestro e accostarsi nel corso degli anni Venti ad altri pittori; in primis, dal punto di vista della tecnica pittorica, alla leggerezza di stesura di Van Dyck, alla sua maniera dolce e aggraziata. Fondamentale sarà poi la poi prossimità con il Fiasella nel quarto decennio del secolo, che porta a episodi di vera e propria tangenza stilistica. Sono gli anni Quaranta quelli che vedono il pittore esprimersi nei suoi modi della prima maturità, quando acquisisce uno stile proprio che coniuga il gusto coloristico di ascendenza strozzesca e rubensiana, con la nuova lezione di pittura a velature di Jan Roos e Van Dyck. Il tutto, coerentemente nel solco del naturalismo di impronta narrativa che è tipico della scuola genovesi nei decenni centrali del Seicento. In questo contesto Giovanni Andrea De Ferrari si muove da protagonista, a capo di una bottega che, insieme a quella di Fiasella, conta il maggior numero di allievi, aiutanti, discepoli. La sua fortuna è tale sia nel contesto ecclesiastico che in quello dei privati, che la sua produzione pittorica è assai abbondante, e purtroppo non ancora ordinata criticamente, mancando a tutt'oggi un catalogo ragionato dei suoi dipinti. Ciò nonostante, la sua maniera, sebbene si evolva nel corso degli anni, resta sempre facilmente riconoscibile. Così come sono evidenti gli scarti qualitativi tra le opere sue e quelle della bottega. Alla luce delle attuali conoscenze e di queste considerazioni, è ben chiaro che questa inedita tela con Lot e le figlie va indicata come una sua prova autentica e assai significativa. Il brano di natura morta sul primo piano, modernissimo per come è gestito con una visione sintetica e non analitica, vuole comunque riportare il riguardante alla realtà. Non mito, né leggenda. Questa è storia vera, narrata dalla Bibbia (Genesi 19, 30-38) e dunque "exemplum", racconto che si fa monito per tutti. I pittore non dà qui all'episodio biblico quelli’interpretazione di sapore quasi “dionisiaco” che si trova nella tela di identico soggetto già in Collezione Koelliker (fig. 1), del tutto estranea al suo approccio sempre casto e composto, che tra l'altro Angela Acordon segnalava come unicum iconografico per il De Ferrari, non essendo noto il presente dipinto (A. Acordon in Collezione Koelliker. Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento, a cura di A. Orlando, Torino 2006). Nell'esemplare qui analizzato troviamo la diligenza descrittiva di Gio. Andrea che nella scelta di temi sacri non rinuncia a sedurre con la bellezza della sua pittura. Pose e gesti sono però contenuti, così da trattare un tema al tempo stesso drammatico e morboso: Lot è ubriacato dalle figlie che devono unirsi a lui per scongiurare la fine della loro stirpe. Il genovese non si abbandona all'aspetto licenzioso del racconto, pur facendovi un misurato cenno: nel petto scoperto della figlia di fronte al padre, nel contatto fisico delle mani del padre sulla coscia dell'altra figlia e della sua sul braccio del padre. Lot, il cui sguardo è già trasognato, pare chiedere ancora vicino, e le due giovani lo guardano e si accostano a lui con sguardo di affetto misto a malinconia. Alle loro spalle bruciano le città di Sodoma e Gomorra. Ma il pittore non lo racconta, derogando alla tipica tendenza alla narrazione, sua come di tutti i naturalisti genovesi della prima metà del Seicento, per concentrare il registro espressivo sull'aspetto emotivo e sentimentale. E creare così empatia. Tra gli accostamenti più significativi pare potersi porre la Conversione di Maria Maddalena già in Collezione Zerbone (fig. 3), non solo per la somiglianza fisionomica con una delle due giovani (fig. 4), ma anche per quel sapore generalmente fiammingo del dipinto; non propriamente rubensiao, né esclusivamente vandichiano. Dal primo maestro prende il colorismo acceso, ma non la pennellata, che desume invece dalle delicate stesure di Van Dyck. Rubensiano e strozzesco insieme è il vecchio padre. Già attenti alla lezione composta di Fiasella sono i panneggi ben costruiti. Ne risulta, ad evidenza, una prova di grande qualità e piacevolezza per una maestro raro a incontrarsi in scene che hanno, a conti fatti, un sapore certo non sacro, ma squisitamente profano.